Un gentiluomo di Monteleone di Calabria

 

La lettura di un libro non è ormai una pratica comune. Tra le molte ragioni v'è la sensazione di tirarsi fuori dal flusso della quotidianità, isolarsi e vivere un tempo inefficace. Al contrario, a me piace farlo proprio per appropriarmi di queste sensazioni. E intessere un dialogo silenzioso con un autore, un essere senziente che pensa di dover dire qualcosa. Non è sempre così. Ma nel caso del libro di Gino Achille, "Cronaca delli Accadimenti" quel "qualcosa da dire" mi è piaciuto molto ascoltarlo. Come un raro privilegio. 

C'è un concetto falso nelle molte filosofie da banale sussidiario che si tendono a divulgare: la separazione tra mente e corpo, l'esistenza autonoma dell'anima, la razionalità contro la sensazione.
Che idiozia.
D'altra parte, il povero Baruch Spinoza, per averlo confutato - ovviamente e per nostra fortuna scrisse anche tanto altro - subì: la scomunica, accompagnata da un terribile anatema, dalla sua comunità di appartenenza, quella degli ebrei di Amsterdam, l'esilio e persino un attentato che procurò un foro di lama nel suo mantello senza trovare, provvidenzialmente, sponda nella carne.
Qualcuno ricorderà il testo di quella scomunica che appare vieppiù grottesca ma che all'epoca dovette risuonare in un tono tetro, amplificato da una impressionante cerimonia simbolica: 
«Con l'aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, con il consenso di tutta la santa comunità e al cospetto di tutti i nostri Sacri Testi e dei 613 comandamenti che vi sono contenuti, escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo Baruch Spinoza. Pronunciamo questo herem nel modo in cui Giosuè lo pronunciò contro Gerico. Lo malediciamo nel modo in cui Eliseo ha maledetto i ragazzi e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno e di notte, mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce. Che l'Eterno non lo perdoni mai. Che l'Eterno accenda contro quest'uomo la sua collera e riversi su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge; che il suo nome sia per sempre cancellato da questo mondo e che piaccia a Dio di separarlo da tutte le tribù di Israele affliggendolo con tutte le maledizioni contenute nella Legge. E quanto a voi che restate devoti all'Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con Spinoza alcun rapporto né scritto né orale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti. Che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti»

Che roba.
Tant'è.
Così, non appaia stravagante che prima della lettura di quello che ipotizzo essere un buon libro, faccia tutto il necessario per adagiare in una condizione di benessere quella macchina biologica che sono. 
Ho iniziato da una buona cena a base di arista di maiale che durante il giorno ho amorevolmente curato impregnandola di vino, spezie e succo di mandarino. 
Tratte due grosse fette da circa 3 cm arrostite a dovere, me le sono servite su un bel piatto quadrangolare dopo averle spolverate di sale e pepe, accompagnando ogni boccone con ampie sorsate di un rosso "allegro", un bicchiere di lambrusco che di tanto in tanto mi piace ritrovare, memore d'incursioni giovanili nel modenese. 
Profumi e sapori.
Consistenti.
Come il pezzo di cioccolato amaro che ha suggellato il pasto godurioso.
Preparativi. 
Ai quali sono seguiti, nell'ordine: due dita di un fortissimo liquore che alambicco in estate nell'attesa dell'inverno - ricetta segreta del "Provvidente Menniti" così ribattezzato da un amico toscano che sorseggiandolo sentì generarsi un'immediata digestione - e una manciata di tabacco ben pressato nella pipa. 
Ormai sono pronto.
La mia poltrona preferita e infine eccolo: "Cronaca delli Accadimenti di un Gentiluomo della città di Monteleone di Calabria, dall'a. D. 1757 all'a. D. 1787, da lui stesso narrati".


Si tratta della seconda fatica letteraria di Luigi "Gino" Achille, scrittore del quale ho già avuto modo di apprezzare la limpidezza dello stile, asciutto, diretto, privo di fronzoli, assente di retorica.
Soprattutto, la vena ironica leggera e coinvolgente.
Quando? 

Durante la lettura del suo primo libro, "Per adulti con riserva" immediatamente recensito in quell'occasione. 
Se il primo mi aveva lasciato una piacevole impressione, peraltro rivelandomi una Vibo Valentia acutamente colta dall'autoctono autore, il secondo che annunciava un viaggio ancora più remoto nella memoria della città, non poteva essere da meno.
Ed è stato proprio così.


Arricchito da uno dei suoi disegni che coniuga esattezza topografica e semplicità descrittiva, quasi favolistica, il testo è una ricostruzione di fatti realmente accaduti: la riforma borbonica consistita nella redazione del Catasto Onciario dopo la metà del secolo e l'istituzione della Cassa Sacra che seguì al terremoto del 1783.
Se restassi su queste prime parole, sarebbe giustificato lo scetticismo del lettore.
Ma Gino Achille ha utilizzato i due avvenimenti storici, assunti direttamente alla loro fonte con uno studio davvero accurato e meritorio, per mutarne la fredda descrizione in una straordinaria versione romanzata, ponendo al centro del testo la "voce" di un protagonista, realmente esistito: il Magnifico Luigi Antonucci, gentiluomo alto-borghese del XVIII secolo, immaginato nell'atto di ricevere e di adempiere all'incarico di esposizione analitica del fondamentale documento catastale, dal Duca Pignatelli, feudatario e quindi signore della città, interessato a verificarne gli effetti.
Così, intorno a quest'avvenimento che esalta il talento di fine osservatore del Gentiluomo in questione, si dipana la narrazione, un diario a grandi linee della vita e dei ricordi, delle impressioni e dei racconti, di un uomo di quel tempo, profondamente immerso nelle vicende tutto sommato semplici della sua città d'origine.
Un racconto che procede per cenni, per figure, per sentimenti direi.
Corpo e spirito inseparabili.
Così come la realtà degli atti e l'immaginazione dei fatti.
Un piccolo capolavoro d'architettura narrativa, godibile grazie al già richiamato stile.
Ma lo stile non è modalità: è connaturato al racconto, lo designa, lo fornisce d'identità.
Che è quella di un uomo che pensa e che si ritrova in un motto che da tempo ho coniato per me stesso: "Leggo per capire. Scrivo per pensare".   
Un motto che Gino Achille può fare suo assieme al seguito che è invece una celebre esortazione di Immanuel Kant: "Sapere Aude".
Non a caso sollevo qui il tema dell'Illuminismo che ha avuto nel filosofo di Königsberg il suo più pregnante interprete.
Non a caso, il richiamo a Spinoza, tra gli artefici della svolta razionalista secentesca e antesignano del criticismo kantiano, si spiega in questo riferimento.
E non a caso, il Gentiluomo Luigi Antonucci e il suo dichiarato alter ego, lo speziale/farmacista Dottor Ancillotta, sono interpreti di un'autentica vocazione "progressista": il primo in una versione paternalista di radice cattolica; l'altro, in un'accezione radicale filo-massonica ante litteram.


Questi due personaggi mi hanno ricordato, con la dovuta distanza, le due figure più significative di un racconto celebre, "La montagna incantata" di Thomas Mann: il gesuita Naphta e il massone Settembrini. Con la dovuta distanza perchè in quel caso si fronteggiano contrapposizioni decise, fino alla tragedia finale, inaspettata. 
Al contrario, nei due personaggi di Gino Achille aleggia un condiviso e coltivato sentimento di amicizia, fino al punto che il protagonista, certamente devoto, dichiara la sua ammirazione per un amico ateo fieramente imbevuto di una visione scientifica ormai debordante nell'Europa del tempo.
Un'ammirazione che non offusca le certezze etiche della "religio" capace di esplicare la sua potenza fascinatoria nei riti, ma lascia allo scoperto semmai i dubbi irrisolvibili che giacciono nell'abisso del "sacro".
Temi annosi, complessi, difficili.
Eppure, l'autore riesce con pochi tratti a ridurre lo spessore della complessità alla lastra sottile di una frase laconica retta da invisibili, poderosi contrafforti:
«In un recesso nascosto del mio animo, alberga il timore che la fiducia nell'esistenza di un aldilà sia frutto soprattutto della paura della morte e che tutto possa in un attimo finire. Che l'esistenza di un'Entità soprannaturale sia solo, in fondo, una consolatoria invenzione dell'uomo per dare un senso al mistero dell'essere venuti al mondo. E vorrei condividere la piena certezza che Cristo è il figlio di Dio, della sua stessa sostanza, incarnatosi per la nostra salvezza, e non solo un carismatico Messia come, per esempio, afferma la religione degli arabi.» 
Roba da scomunica perenne, al modo subito dal povero Spinoza solo un secolo prima del nostro personaggio. 


All'epoca nella quale Gino Achille colloca il suo protagonista, il dubbio è non è più eresia ma s'è trasformato in ricerca, pervade le menti più attente e sensibili, induce il confronto delle idee, si specchia nei mutamenti in corso e rifiuta i conformismi clericali.
Però, difficilmente poteva essere espresso pubblicamente senza doverne sopportare un pericoloso stigma nella comunità.
Così, l'autore, anche se non risparmia nulla al suo personaggio, ne dipinge i tormenti entro la dignità limitata di pagine nascoste e lascia scoprire al lettore il valore del "diario" come qualcosa che somiglia molto al concetto hegeliano di "autocoscienza": un processo che non supera mai il passato ma lo "comprende" nel "tutto" inscindibile dell'essere umano calato in una relazione incessante.
Questo è forse il nodo più intenso che Gino Achille lascia sullo sfondo: la visione razionale della propria coscienza non è frutto di un "a priori" kantiano ma l'effetto di una relazione con il negativo, l'altro da sé.


Allora, il mondo fanciullesco abbandonato per superare, nella maturità, la dipendenza materiale dagli affetti e proiettarsi, emancipato, nel mondo, ritorna nel ricordo dei genitori e nell'immagine presente dei figli. E anela al frutto successivo, a quell'andare oltre alla coscienza di essere parte di una società civile che si regge sulle leggi dell'economia: quello dello Stato chiamato alla vocazione di sanare le storture dettate dagli egoismi, lo Stato intravisto nelle riforme borboniche ma rimasto arroccato nelle ripide stradine che digradano dal "Castello", isolato dal resto di una piccola città di provincia che rivolge lo sguardo verso i quartieri nuovi, quelli dotati di strade più larghe e regolari ma di visioni sociali più anguste e caotiche.
Ci tiene molto, Gino Achille, ad affrontare l'insieme dei temi entro una finzione letteraria realistica.
Lo fa fino al confine più estremo, quello d'introdurre un "errore" nel racconto biografico del suo personaggio, comprensibilmente frastornato dal viaggio e dalla permanenza nella Firenze che l'autore conosce benissimo, facendone scenario privilegiato e credibile di questo refuso volutamente forzato nella ricostruzione diaristica.
Proprio per darle la forza del verosimile.
Lascio al lettore il gusto di scovare questa chicca narrativa che, con raffinatezza non comune, lo scrittore vibonese incastona nel testo.
Magari, mi riservo di svelarla - assieme ad altri elementi di curiosità e interesse - nel corso del dibattito con l'autore nell'accogliente libreria "Cuori d'inchiostro" di Francesca Griffo, organizzato per la presentazione di questo godibile testo dalla direttrice editoriale di Libritalia.net Simona Toma.


Ora, poichè al tavolo dei relatori ci troveremo, con Gino Achille, assieme a tre gentili e autorevoli signore alle quali lasceremo volentieri il passo, mi è parso il caso di anticipare, qui, le mie riflessioni sul libro.
Riflessioni che concludo con una considerazione finale.
Si tratta di qualcosa che in generale, quando viene sollevata anche a me che qualche libro l'ho scritto e lo scrivo, mi fa barcollare di fastidio: le presunte tracce dell'autobiografia.
Per chi conosce Gino Achille ovvero abbia solo letto la sua prima pubblicazione, l'impressione di avere attinto a sè affiora, sporge, compare.


Ma si tratta, se vissuta così, di banalizzare qualcosa di molto più intenso.
Ogni autore degno di quest'appellativo appartiene a un'epoca, a un contesto culturale, a un sistema di relazioni, a una storia, imprescindibili.
Ogni racconto e, direi, ogni espressione artistica e letteraria, è collocabile nel tempo e nello spazio.
Nessun autore è un "sistema autonomo", una soggettività isolata che osserva il mondo a distanza: ne fa parte, lo influenza e ne è influenzato.
Così, quello che l'autore è come coscienza partecipe di un'epoca, trova riflesso nel testo.
Il riflesso non è l'immagine allo specchio dell'autore: è solo il punto d'osservazione dal quale coglie, sensibilmente, la complessità dei fenomeni e la interpreta alla luce degli strumenti dell'esperienza, per attribuire significati.
Soprattutto quando è invenzione narrativa, per di più calata in uno scenario distante oltre due secoli, questa è un vissuto connotato da numerose possibilità, effetti, sensazioni, impressioni, linguaggi, ai quali l'autore fornisce forma e struttura in funzione degli equilibri incerti del racconto.


Dunque, una gamma vastissima di scelte che non sono distinte da classificazioni e confini ma solo dalla capacità espressiva di metterle in parole, di trasformare le parole in evocazioni di immagini che debbono restituire credibilità al racconto.
Gli esseri umani pensano per immagini.
Nel "Filebo", Platone fa dire a Socrate:
«[...] il filosofo vuole dipingere nell'animo di chi ascolta sapienti immagini e farlo innamorare.»
Questione antica.
Ebbene, nel caso di Gino Achille e di questo magnifico e riuscito testo - esito peraltro di una ricerca bibliografica piuttosto corposa - l'intenzione di rendere sostenibile un diario di intime riflessioni sui valori fondanti dell'esistere in un'età di transizione che si affaccia sulla modernità, lo ha condotto su perigliosi sentieri necessari a scovare tracce di vita, imponendosi di portare a compimento il suo obiettivo attraverso un gesto di estrema, coraggiosa generosità verso i lettori: incarnarsi nel suo protagonista, ridere le sue risate, piangere le sue lacrime, disperare la sua disperazione, innamorarsi del suo amore.
Luigi Antonucci, il Gentiluomo di Monteleone di Calabria, non scrive le parole di Luigi Achille.
È Luigi Achille a prestare le sue parole a Luigi Antonucci.
Per renderlo reale agli occhi del lettore, sacrifica una parte di sè.
Un bilancio.
Un'eredità.
Ancora lontani.
Ma già lasciati a chi abbia il cuore intatto per vederli e sentirseli addosso.
Come un mantello prezioso in una notte fredda.

Copyright © Gianpiero Menniti All rights reserved





Post più popolari