Vibo Valentia nel secondo Novecento
Un libro, un diario dei ricordi. Ma non gettati a caso tra le pagine: sono scelti come occhi per lo spirito di chi legge. È il narrato della vita familiare che incrocia i destini della città, la Vibo Valentia vissuta nella seconda metà del XX secolo, tra i fasti di un passato, ragguardevole non solo perchè molto antico, e le contraddizioni che ne hanno accompagnato lo sviluppo nell'età contemporanea. "Per adulti con riserva" è un racconto delizioso, scorrevole, punteggiato da un'ironia intelligente, dalla sensibilità e dall'acutezza di Luigi "Gino" Achille, architetto e scrittore, figura tra le più autorevoli di una città che sembra conservare le voci più intime di sé per i suoi figli prediletti.
L'ho letto d'un fiato e mi ha lasciato un'immediata nostalgia: avrei voluto che non finisse così presto.
Ma quest'esito breve fa parte della logica del racconto, legato com'è a stralci di ricordi che prendono voce da immagini lontane e dense: le parole hanno lo scopo di evocarle, di riportarle in luce senza troppi bagliori, delicatamente, privandole dell'enfasi personale - il pericolo più cospicuo per un'autobiografia - di stemperarle in colori tenui eppure netti, pennellate per le quali è sufficiente un solo passaggio.
Gino Achille è così anche nella vita privata e professionale: la sua vivace riflessione è asciutta, la parola impiegata con il gusto e la perizia della ricerca di precisione.
Poi, quando non te l'aspetti, un balzo ironico.
Suscita un sorriso.
Ce ne sono molti di sorrisi, sparsi qua e là emergono dal flusso sagace composto in piccoli paragrafi che rispettano la struttura annunciata dal sottotitolo.
Un disegno sistematico che s'incammina nella coerente certezza del post hoc ergo propter hoc.
E poi perchè sorprendersi: lo sguardo di bonario distacco della voce narrante dovrebbe invece rammentare che lo "humor" forse non l'hanno inventato gli inglesi visto che dall'antica Attica fino alla "Magna Graecia" e nell'ethos dell'area mediterranea è maturata la civiltà del teatro - che non a caso ha ispirato proprio Shakespeare - e con esso una chiave efficace di svelamento, di lettura e descrizione del mondo.
E poi, basterebbe citare l'ironia socratica per non dover cercare troppe spiegazioni.
Già, in questo, Gino Achille è davvero un pensatore che fa onore a quest'antichissimo "spirito mediterraneo".
Il libro rimane godibile fino all'ultima riga, anche quando, nelle pagine finali la memoria si annoda alle vicende del giovane studente universitario nella Firenze di fine anni '60: può essere confusa per una digressione, ma in quei pensieri il distacco non è mai lontananza.
Si accende sempre una luce sulla città d'origine.
Scriveva Cesare Pavese ne "La luna e i falò":
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.»
Così, una Vibo Valentia che sarebbe sfuggita a chi non l'abbia conosciuta in quegli anni, si veste delle parole di un figlio che ne ha ereditato una traccia nascosta del carattere: la città che osserva e conserva, induce a osservare e a proteggere gli attimi, a trasferirli su una tela di preziose vedute e figure offerenti gesti silenziosi ma eloquenti.
Tra le pagine di "Per adulti con riserva" sembra quasi di vederla la città che muta sotto i colpi implacabili della modernità, fonte di sviluppo quasi mai ordinato, impetuoso fino a diventare oltraggioso.
A Luigi Tommaso Achille questi passaggi non sono sfuggiti.
Riesce a tenerli sul filo delle parole, fornendo a queste anche la durezza di una sincerità priva di eccessi, inappuntabile, elegante, incisiva.
Come nei cenni descrittivi sui cambiamenti nei quali è incorsa "Vibo Marina": mi hanno colpito.
Ma non solo quelli.
E se sono tentato di evitare le citazioni per non privare il lettore del piacere di svelare da sé il racconto, una considerazione dell'autore proprio sul rinomato quartiere marinaro della città quasi s'impone.
Eccola:
«In un certo senso Vibo Marina, a causa delle scelte sbagliate di chi ha amministrato, si può dire che è stata anche il regno delle occasioni perdute: non è riuscita a valorizzare fino in fondo le potenzialità del suo porto, non è riuscita ad essere una località ricettiva per il turismo balneare pur avendo belle spiagge, non è riuscita ad essere un centro industriale nonostante sul suo territorio fosse installata una grossa realtà come il Cementificio e fossero stati costruiti lungo la costa una serie di depositi di carburante. La latitanza se non del tutto la complicità, del capoluogo nelle scelte sbagliate avvenute nel territorio di Vibo Marina, che per la bellezza del sito avrebbe meritato ben altro, ha portato nel tempo i suoi abitanti a comprensibili spinte autonomistiche.»
È evidente: quello di Gino Achille non è un bilancio vanamente retorico sulla città.
La stessa nostalgia, connotato imprescindibile di racconto come questo, scompare in una voce che la stempera nella ricostruzione attenta degli scenari: come su un set cinematografico, l'illusione necessaria diventa la realtà indelebile dell'apparizione, segnata da ben differenti contenuti.
Il cinema, già: una passione che Gino Achille mette in primo piano, cosciente di essere parte di una generazione che, tra le prime in modo considerevole, si è costituita sul sentimento dei racconti per il "grande schermo", prodotti dalla Hollywood più sfarzosa di creatività e di volti e di nomi ormai scolpiti nella memoria.
Mentre scorrevo il testo, questo riferimento al cinema l'ho avvertito sempre più profondamente, un'eco di fondo che ero certo volesse suggerirmi qualcosa.
Tuttavia, non riuscivo a sentire più che un richiamo, un'atmosfera.
Poi, rileggendo, ho finalmente rammentato una frase, rimasta per me indecifrabile al tempo.
Ne "La grande bellezza", ormai celebre e pluripremiata opera cinematografica di Paolo Sorrentino, il protagonista, Jep Gambardella (nel quale vedo simpatiche assonanze con il nostro disincantato autore), afferma:
«Quando, da giovane, mi chiedevano: cosa c'è di più bello nella vita? E tutti rispondevano: "la fessa!", io solo rispondevo: "l'odore delle case dei vecchi". Ero condannato alla sensibilità!»
Ecco come la dotta leggerezza con al quale Gino Achille racconta la sua Vibo mi ha direttamente condotto nella scia di un piccolo enigma interpretativo rimasto sospeso a lungo: l'odore delle case dei vecchi è il vissuto di un mondo intriso d'umanità tralasciata, trascurata, dimenticata e infine perduta nel chiasso e nelle grida, nella chiacchiera scomposta dei sogni abborracciati e mai compiuti, nella superficialità che ha sconfinato nell'inesattezza, facendosi poi scudo dell'oblio che va a braccetto con un tempo distratto.
Una grande lezione.
Raccontata con spirito aperto attraverso ricordi, appunti e divagazioni come si legge nel già evocato sottotitolo di questo bel libro.
Forse tra i racconti più veri e più nascostamente intensi della Vibo del secondo dopoguerra.
Città del Meridione d'Italia, "periferia dell'Impero" che possiede ancora il potere di suscitare uno sguardo lieve, intriso di candore antico e aguzzo come la coscienza smaliziata di un sognatore deluso.
Eppure, in ogni cenno, anche quello rivolto alla ricostruzione dei percorsi storici più datati e perfino antichi, si avvertono le sferzate di un "animus pugnandi" mai domo nella speranza di una svolta.
Possibile perchè già svelata dal racconto delle radici.
Davvero è un libro che non si dovrebbe mancare di leggere.
Per chi Vibo, davvero, voglia ascoltarla fino a comprenderla.