Equazione priva di grandezze note
Un proposito, ambizioso: risollevare una città che è tra le ultime d'Italia. Come? Con buon senso e metodo. Per risolvere un'equazione davvero complessa. Quale? Vibo Valentia + X = efficienza/benessere/sviluppo. Il problema tuttavia non è rappresentato solamente dall'incognita "X" ma dalla grandezza apparentemente nota che ha il nome di questa città dal fascino nascosto. La si conosce davvero? Ed è davvero così chiaro cosa occorra fare? Un passo alla volta: Vibo Valentia ha bisogno della concretezza di un lavoro di riscoperta, di ricerca, di studio quotidiano. Attraverso le voci dei suoi cittadini, di coloro che la amano davvero e che sono in attesa, ormai da decenni, di vederne il riscatto. Con questi presupposti, su impulso di Enzo Romeo, è nato il "Progetto Vibo Valentia".
Quando la politica nasce da una conversazione piacevole, ricca di memorie, di sentimenti, di passioni, nasce sotto buoni auspici.
Così, semplicemente, si è materializzato un disegno sognato ovvero un sogno che ha un disegno: concreto, semplice, razionale e generoso, come la buona politica che sembra scomparsa dallo sguardo e dalla cronaca quotidiana, così avara di una sensazione di prospettiva, di uno sguardo ottimista, di un approccio di autentica cittadinanza.
Un pomeriggio di qualche tempo fa, al suo studio medico incastonato nel cuore della città, lungo Corso Umberto, ci siamo trovati con Enzo Romeo e un altro impareggiabile amico, Fabio Brandi, a conversare dei fatti di questo tempo di crisi, di management pubblico, di potenzialità e sviluppo, di identità urbana e di storia contemporanea, di errori del passato e di opportunità per l'avvenire.
Dopotutto, solamente qualche idea sviscerata nel rispetto della verità di parola: niente fronzoli, nessuna retorica, nessun richiamo alla memoria per farne un totem, una sorta di vessillo colorato da sbandierare per nascondere altro, per non dire il necessario, per assuefarsi a un clima di nostalgie rassegnate.
Affatto.
Riscoprire per promuovere, valorizzare e infine crescere nella direzione di una storia fondante, significativa, ragguardevole.
Ci siamo intesi quasi su tutto.
Via via, assieme ad altri amici che la pensano come noi, abbiamo cercato di trovare il bandolo di una matassa piuttosto intricata, sotto il peso di una domanda irrisolta:
"ma è proprio vero che si conoscano a fondo i reali problemi di Vibo Valentia? Quelle criticità che ne avrebbero impedito un futuro di sviluppo, come nelle premesse di una bella città che si prolunga con eleganza verso la costa?"
Sono emersi dubbi.
Molti dubbi.
L'analisi del degrado e di un clima di crisi perenne non è convincente fin tanto che si arresta sul confine del racconto superficiale, banale, scontato.
Il disordine è il risultato di un concorso di fattori che affondano le radici nell'involuzione della classe dirigente, pubblica e anche privata, nella deriva di una "privatizzazione" del diritto, nel disastro di un Meridione sul quale non si riflette più in termini di politiche di crescita efficiente.
Tutto accade mentre avanzano l'impoverimento generale di cittadini e imprese, la caduta demografica, la criminalità, il disimpegno sul fronte delle risorse culturali, l'uso scarso e al più distorto delle risorse europee, statali e regionali.
Si tratta solo di cenni: ma rappresentano parte del groviglio, la matassa evocata poc'anzi.
Occorre addentrarsi: questo ci siamo detti.
Per farlo, le voci rimaste silenziose devono raccontare queste realtà che appaiono complesse solo fino a quando qualcuno si proponga di spiegarle.
In un'immagine, i sistemi di cui si compone una città potrebbero essere paragonati a una sorta di palazzo fatto di ambienti numerosi che si aprono uno sull'altro, stanze che s'incrociano mostrando sempre nuovi percorsi.
Impossibile prenderle tutte assieme: a destra o a sinistra, avanti o indietro, questi luoghi molteplici formano un labirinto.
Se manca la pazienza di incamminarsi fino al fondo di ogni percorso, sarà impossibile trovare l'uscita.
Le voci sono la guida per chi non voglia semplicemente attraversare questi lunghi corridoi ma comprenderne la natura più profonda, i difetti, i pericoli, le inesattezze e le leggende metropolitane che li costellano.
Come per colui che si trovasse a dover riordinare un archivio scomposto, non ci sono scorciatoie: un fascicolo alla volta da rimettere al posto giusto.
Solo così l'archivio può riprendere a vivere la sua funzione.
Solo così, l'archivio sparso delle voci della città può ripristinare la verità dei fatti, coincidere con le vere identità, presentare in modo fondato le sue potenzialità.
"La città può tornare a vivere, desta e finalmente cosciente degli errori ma anche delle sue intuibili peculiarità."
Queste, ci siamo detti, sono le fondamenta per essere certi di scrivere un'equazione possibile: la cosiddetta "grandezza nota" di Vibo Valentia deve riflettere lo stato verificabile delle cose, lo stato dell'arte effettivo.
Anzi, per dirla con Machiavelli, la "verità effettuale", quello stato concreto delle cose che è l'unica bussola per orientarsi in un progetto "politico" serio e realizzabile.
D'altra parte, appena evocato, mi sovviene una frase del primo pensatore della politica moderna tra la fine del '400 e gli inizi del '500:
«La istoria è la maestra delle azioni nostre» - N. Machiavelli, "Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati", 1503
Superfluo commentare.
Accade che in tanti tralascino di pensare la politica come un processo che richieda impegno intellettuale di analisi prima di ogni decisione.
Insomma, il classico e popolare "cento misure e un taglio".
Eppure, si dice per obiezione, occorre agire in fretta, essere veloci: non c'è tempo per riflessioni e dibattiti.
Già, le criticità avanzano, i bisogni generali e particolari continuano a permanere e il tempo risulta anch'esso un elemento problematico.
Con questa logica, tuttavia, il nostro Paese e con esso le nostre città, sono rimasti al palo: mettere la polvere sotto il tappeto non è una soluzione.
Allo stesso modo, guadagnare tempo con misure parziali e lontane dall'origine dei problemi, sposta in avanti e cronicizza il male.
Per qualche voto in più.
È la crisi della democrazia rappresentativa.
Occorre accettarla?
Per nulla.
Siamo eretici rispetto alla banalità della rassegnazione e dunque facciamo un passo indietro, per riflettere.
Il '900 è certamente stato il secolo dell'affermazione e della crisi delle visioni ideologiche del mondo, di quelle che Raymond Aron definì le religioni laiche.
Non mi riferisco solo al modello liberale e a quello socialdemocratico, ai totalitarismi comunisti e fascisti, ma anche alla stessa "democrazia" e alla "globalizzazione" che vanno intesi come paradigmi in costante divaricazione.
E dunque, come realtà sociali perennemente affamate di aggiustamenti, di attenzione alla memoria.
Ho fatto cenno ad Aron.
Mi sovviene ora una citazione dal suo "Il concetto di libertà":
«L'occidentale autentico è colui che della nostra civiltà accetta totalmente soltanto la libertà che gli viene data di criticarla e la possibilità che gli viene offerta di migliorarla.» - Études politiques,1972 (trad. italiana parziale Il concetto di libertà, 1997)
Pensiero critico e impegno politico: questa è l'unica scelta per cambiare in meglio, quanto meno per innescare alternative alla stagnazione, al disagio silenzioso, al mugugno sommesso, all'illusione tradita.
Il "post-moderno" che include la "Modernità liquida" di Bauman sono affermazioni che raccontano la crisi della democrazia rappresentativa dentro la crisi dell'economia globalizzata: hanno germinato nel corso del secondo Novecento e si sono consegnate al XXI secolo con l'unico effetto possibile:
"il disordine."
Tanto da fare rimpiangere la lunga e pur criticabile fase di stabilità rappresentata dall'equilibrio della "Guerra Fredda".
Questa la condizione nella quale siamo sballottati.
E in mezzo, la confusione delle bugie spacciate per buona comunicazione.
Dunque, cosa fare?
Niente scorciatoie.Scendiamo sul nostro terreno.
"Vogliamo tornare a "pensare" la città."
E cosa vuol dire esattamente, riflettere sulla città?
Beh, significa abbandonare le opinioni facili e semplificanti: la città è un'immensa rete di relazioni, di nodi, di nessi, di realtà connesse.
Allora, pensare la città impone una regola: i fatti, le fonti, la verifica attraverso la ricerca.
La classe politica attuale non lo fa: preferisce la retorica del comunicato che è solo vuota autocelebrazione, enfatico elenco del nulla.
E i risultati di questo modello di gestione sono, purtroppo, sotto gli occhi amareggiati di tutti.
La città, invece, ha bisogno di maggiore rispetto: è un corpo vivo che da troppo tempo soffre.
Le parole vanno pesate.
Lo spirito critico deve rappresentare l'inizio.
Il riflesso costruttivo, la proposta, deve rappresentare il compimento.
Le scelte ponderate vanno accolte e difese con decisione.
Su ogni questione, occorre spingersi fino alla chiave di volta.
Se è vero quanto sosteneva Hegel e cioè che nell'esperienza della coscienza esistono equazioni senza variabili note, ebbene per noi, che intendiamo fare ogni sforzo possibile verso la comprensione dei fatti, non esiste alternativa all'impegno cosciente, diretto e condiviso.
«La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. E' perfettamente esatto, e confermato da tutta l'esperienza storica, che il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l'impossibile.» - Max Weber, "La politica come professione", 1919
Le affermazioni del passato ci obbligano a ripensare il concetto di "profetismo" intellettuale: non si tratta di facoltà ma di ricerca e riflessione, studio, confronto, apertura mentale, concretezza.
La lunga sequela di "profeti" nel corso del XX secolo non è altro che la lunga schiera di chi ha osservato e pensato.
Poi, l'intellettuale non ha altro mezzo per agire che la parola: la parola fondata sui fatti e sulla loro interpretazione.
Certo, nel tempo, in questo tempo, una sorda espressione ha agito avvinta da quel grottesco sabba di streghe che è la ricerca individuale della felicità, trasformatosi da concetto a sentimento, da valore della persona a modello di egoismo radicato, accentuando il familismo più retrivo e sconcertante, specie nelle società meridionali.
La famiglia, intendiamoci, non è un sistema di relazioni di per sé negativo.
Ma quando prevale sul concetto di cittadinanza, diventa tribù, un sistema chiuso, indifferente, arrogante, violento.
"La città diventa, così, un luogo da usare, da sfruttare".
Manca il senso di comunità.
Chiedere che tutti se ne facciano carico, che sic et simpliciter si diventi "comunità" cittadina coesa e solidale è pura demagogia improduttiva.
No.
Questo risultato non si ottiene con le prediche.
Occorre che qualcuno se ne faccia carico, che mostri con l'esempio un approccio diverso, più ricco di opportunità per tutti, più attento alle esigenze di tutti, dal quartiere periferico al centro storico.
Mostrare come dalle parole discendano errori e approssimazione: il cinismo di chi tira a campare imbellettando il disordine.
Mostrare come dalle parole si possano tuttavia generare fatti: puntando sulla relazione tra l'evidenza e la soluzione.
A questo scopo, s'impegnino i migliori, di qualunque estrazione sociale.
"...Ci serviamo della ricchezza più per l'opportunità di azione che per lo sfoggio in un discorso, e non è vergognoso ammettere di essere povero, anzi è più vergognoso tentare di rifuggire con i fatti la povertà. Le stesse persone si possono occupare diligentemente degli affari domestici e politici contemporaneamente e per gli altri, che si sono dedicati ad altre occupazioni è possibile conoscere le attività dello Stato abbastanza bene. Noi soli, infatti, consideriamo chi non prende assolutamente parte a queste questioni politiche non quieto, ma inutile..."
E chi siamo noi per smentire il Pericle di Tucidide?
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Un sentito ringraziamento al Fotografo Armando Grillo per le immagini di Vibo Valentia gentilmente concesse.